In una delle ultime lezioni del suo corso il prof. De Bernardi ci ha fornito una spiegazione (secondo me) piuttosto suggestiva del problema identitario nazionale che attanaglia gli italiani. In poche parole: la “morte della patria” del settembre 1943 non è stata seguita da una rinascita ben riuscita, causa la mancanza di un grande valore simbolico attorno al quale costruire una nuova identità condivisibile e condivisa. NB. non si discute dell’efficacia o meno della Costituzione, come noto splendida&splendente, quanto del sentimento identitario profondo degli italiani; ovvero, non si è riusciti a coagulare attorno alla Costituzione abbastanza simboli forti e condivisi da iniettarla direttamente in vena agli italiani.
Confronto con la Francia. De Bernardi faceva l’esempio del grande valore simbolico che (al contrario nostro) i francesi poterono spendere nella riedificazione della democrazia: l’immagine delle truppe golliste che sfilavano sugli Champs Elisées nell’autunno del 1944, cancellando l’identica sfilata nazista del 1940 – e con essa, tre anni e mezzo di “collaborazionismo” di Vichy. “Collaborazionismo” che è virgolettato per un motivo ben preciso: fu un ben volenteroso collaborare, da parte di Vichy, col nazismo. E allora perché la Francia, che era Vichy, ed era quindi “dalla parte dei perdenti”, non subisce la sorte dell’Italia a fine guerra?
Perché può spendere internazionalmente l’esperienza della France Libre, ovvero di quei quattro gatti di coloniali guidati da De Gaulle e Koenig che avevano combattuto a fianco degli alleati. E anche internamente è chiaro su quale grande valore simbolico abbiano potuto contare i francesi: la vera Francia è la France Libre, Vichy non è la Francia. Ergo possiamo festeggiare tutti sugli Champs Elisées in quell’autunno ’44, perché è la Francia che ha vinto la guerra, e la Francia siamo noi.
All’Italia questo manca.
Intanto non ha avuto una “Italia Libera” che combattesse a fianco degli alleati. Ha avuto una Resistenza, ma solo in metà del paese (quella occupata dai nazisti) e soprattutto “bilanciata” da un regime “collaborazionista” che era depositario del patrimonio simbolico dei vent’anni precedenti. Basare la nuova identità italiana sulla Resistenza, inoltre, non piaceva a nessuno tranne che al PCI, che però aveva altri problemi di “identificabilità” con una patria da ri-concepire. Il passaggio dal paradigma antifascista a quello anticomunista subito dopo la fine della guerra ha fatto il resto.
Insomma, su cosa si basa l’identità nazionale italiana post-1946?
Questo, per sommi capi, l’interrogativo di partenza. Ma io sono convinto che il “gap valoriale” sia un problema ricorrente nella storia dell’Italia unita, non limitato al “post-morte-della-patria”.
Ad esempio, proprio alla nascita dello stato nazionale italiano, c’è il problema della “guerra civile” nel Meridione, che non può non creare problemi di identità condivisa.
Poi un’alleanza, la Triplice, contraddittoria rispetto alla mitologia risorgimentale della lotta per l’emancipazione della “nazionalità”.
Poi un biennio, quello 1914-15, nel quale si entra in un conflitto mondiale ribaltando l’alleanza trentennale, ma soprattutto risultando come “aggressori” in una guerra dove tutti si autorappresentano come “aggrediti”.
Insomma, a mio parere sono molti i “gap simbolici” nella storia d’Italia. E ciascuno di essi ha perpetuato l’impossibilità della creazione di una identità nazionale condivisa.
Che ne pensate? Invoco pareri, perché non so bene come sviluppare la questione.
Alberto De Bernardi & Andrea Rapini, Discorso sull’antifascismo, B. Mondadori, Milano 2007.
Essenzialmente contiene le tematiche già sviluppate a lezione (e riportate all’inizio di questi appunti).
pag. 162 – “(De Gaulle) era iscritto – e starei per dire disciolto – all’interno di una visione politica centrata sull’idea di nazione e sul richiamo ai miti e ai simboli del repubblicanesimo francese”; “non era un antifascista”; De Bernardi.
Insomma De Gaulle, ponendosi come La Francia, poteva “ignorare” relativamente il fatto contingente della resistenza al nazifascismo, ma poteva contare su simboli e identità già consolidate in precedenza. Cosa che evidentemente non può fare il CLN italiano, stretto com’è tra la Repubblica Sociale che si porta dietro il bagaglio dell’identità “italiano-fascista”, e il Regno del Sud che mantiene una seppur scossa identità “italiano-monarchia”. Tanto è vero, aggiungerei io, che nel ‘46 quasi metà dei votanti rimangono fedeli all’identità “monarchica” (altro dato che rende improba una costruzione di una identità repubblicana condivisa). Quindi il CLN (ovvero i partiti che dopo il referendum costruiranno nei fatti il nuovo stato, e lo gestiranno fino a inizio anni ‘90) deve, almeno inizialmente, rifarsi all’antifascismo e alla Resistenza, semplicemente perché non ha altri simboli attorno ai quali coagularsi. Ma il coagulo dura poco, se già nel ‘48 si passa dal paradigma antifascista a quello anticomunista (mediato in “antitotalitario”), funzionale al nuovo contesto internazionale. Qui si inserisce di peso il discorso di Marabou (vedi commento) sull’influenza della politica estera sull’identità italiana. E confluisce con l’identità cristiano-cattolica parzialmente alternativa a quella nazionale, sulla quale la DC impernia la campagna elettorale.
La DC “eversiva” rispetto all’idea-nazione, almeno quanto il PCI?
Ma quali erano queste identità pregresse (le abbiamo impropriamente definite “fascista” e “monarchica”)? Mi procuro il volume “Sublime madre nostra: la nazione italiana dal risorgimento al fascismo” di Banti.
..E invece mi leggo “L’identità italiana” di Ernesto Galli della Loggia (Il Mulino, Bologna 1998), consigliatomi da De Bernardi.
A prescindere dall’antipatia che provo per l’autore, ci sono spunti interessanti:
- contrapposizione asse Torino-Napoli (“asse tirrenico”) vs triangolo lombardo-emiliano-veneto; il primo depositario dell’idea-stato (Savoia e Borbone, ma anche il gruppo di Ordine Nuovo e alcuni gruppi dirigenti DC), il secondo del modulo comunal-autonomista-produttivo, ma anche grande bacino dei moderni partiti di massa; il che crea il problema paradossale dei partiti di massa con un vertice (forse) dotato di idea-stato e una base che ne è priva.
- identificazione borghesia-aristocrazia (volontà della borghesia di “nobilitarsi” per legittimarsi), con l’aristocrazia di “modello latino” basata sulla rendita fondiaria che non rappresenta esattamente un buon modello di sviluppo;
- incapacità di Roma a farsi capitale effettiva, titolare di una centralità linguistico-culturale nello stato unitario: non è centrale propulsiva come una Berlino o una Parigi, è addirittura annessa dopo il 1861.
- modelli istituzionali non nati da una graduale mediazione tra tradizione e cultura “italiane”, ma mutuati da esempi esterni (Statuto Albertino dalla carta belga; sistema amministrativo-prefettizio da quello francese etc.); la “modernità” promossa da uno stato centrale debole, ma imposta con determinazione e “ciecamente”.
- impostazione individualista-familista-oligarchica dei gruppi sociali, il contrario della “politica” come già la definiva Machiavelli; il che sta alla base dell’assenza di “società stretta” di leopardiana memoria.
- prevalenza della politica nel range di criteri che presiedono alla gestione dello stato, ma in definitiva sullo stato stesso; politica più potente dell’amministrazione (a differenza, ad esempio, che in Francia); politica che non si preoccupa di saper padroneggiare gli aspetti “tecnici” (economici, sociali) della propria azione; politica che costituisce per le masse anche la via d’accesso alla cultura (con chiari effetti manipolativi).
- l’élite culturale che “crea” la storia e l’idea di “nazione italiana” (vd. De Sanctis) la incentra sulla contrapposizione Chiesa-Stato (che allontana l’idea nazionale da gran parte della popolazione, più “cattolica romana” che “italiana”) e sulla convinzione che il problema del “fare gli italiani” sia di natura ideologico-cultural-politica piuttosto che sociale; élite culturale abituata a sentirsi “avanguardia” con una funzione pedagogica, ma senza gli strumenti per attuarla appieno; élite culturale che tutto sommato si inscrive perfettamente nel sistema oligarchico della società che pure critica, specie quando si riferisce al popolo come “peso” e a sé stessa come “profeta in terra straniera”.
pag. 147 – “l’Italia nata nel 1861 e le sue classi politiche non potevano certo trovare nella storia del paese i materiali con cui costruire lo stato e le sue istituzioni, né tanto meno potevano trovare una tradizione di comando e di efficienza amministrativa con cui, magari ingabbiandola, tenere insieme la nazione”, “modernità priva di Stato”
In conclusione GdL sottolinea due punti cardine che causano il “debole sentimento nazionale italiano” (pag. 157 e segg.):
- “carattere fragile della costruzione statale-unitaria. Come tali l’identità nazionale e il suo sentimento non esistono in natura. L’una e l’altro sono il prodotto di élite ideologico-culturali, in genere inserite nelle istituzioni dello stato, e perlopiù profondamente connesse alla prospettiva di carattere antiparticolaristico dalle stesse élite, appunto, assegnata a quelle istituzioni ed allo stato nel suo complesso. (…) In Italia, il carattere immediatamente ideologico dello stato (a causa della sua origine da una rivoluzione/guerra civile), e il carattere immediatamente politico delle élite legate ad esso, nonché la inadeguatezza degli strumenti nazionalizzatori (si pensi alla lentissima diffusione dell’istruzione obbligatoria), hanno impedito all’ambito della statualità di essere quel fattore decisivo per la crescita dell’identità nazionale che esso è stato solitamente altrove.”
- “La strabordante centralità della politica (…) come religione secolare di salvezza collettiva (ma) diventata ogni volta appartenenza particolare e risorsa individuale”.
Le ultimissime pagine di GdL rinfocolano in me l’antipatia per l’uomo. Ma lasciamo stare.
Punto della situazione.¶
Posto che ci sono stati tutta una serie di fattori che hanno minato alla base la possibilità di creare un’idea stabile e condivisa di nazione italiana:
- cerchiamo di capire quali tentativi si sono fatti in tale direzione; in altre parole, che immaginario nazionale si è tentato di infondere di volta in volta nell’italiano;
- cerchiamo di evidenziare se in questi immaginari vi siano stati, al di là degli elementi antistatali di base, dei significativi “gap simbolici” che ne rendevano inevitabile il fallimento e la sostituzione con nuovi e diversi immaginari.
Alberto Mario Banti, Sublime Madre Nostra: la nazione italiana dal risorgimento al fascismo, Laterza, Roma-Bari 2011.
La tesi dello storico più in del momento (quanti diamine di libri, saggi, articoli ha pubblicato negli ultimi due anni??) è una, ed espressa chiaramente fin dall’introduzione:
pag. VII – “il risorgimento lascia in eredità all’età liberale ed al fascismo una concezione della nazione che nella sua essenza morfologica resta la medesima”
Banti precisa poco dopo che da ciò non discende automaticamente una identità totale tra discorso nazionale risorgimentale e fascista, i quali hanno differenti obiettivi politici: il primo “anima un’aspirazione alla libertà”; il secondo “è il fondamento di uno stato totalitario”.
La tesi di Banti si poggia sulla persistenza nel discorso nazionale (o meglio, sulla centralità in esso) di tre “figure profonde”:
1) la nazione come parentela/famiglia;
2) la nazione come comunità sacrificale;
3) la nazione come comunità sessuata (ovvero nella quale la distinzione di genere ha una precisa funzionalità).
Il Nostro poi sostiene la pervasività, e in ultima analisi l’efficacia, di tale discorso nazionale, proprio grazie all’azione di queste tre figure profonde.
Inoltre, al contrario di GdL, sostiene che la Chiesa resta fuori dal discorso nazionale per relativamente poco tempo, dopo il 1861, inserendovisi con velleità di controllo, indirizzo e magari sovversione, ma rimanendone poi di fatto assorbita.
Però a noi interessa proprio l’aspetto che Banti non sviluppa: i differenti obiettivi politici, se anche non alterano l’essenza morfologica del discorso nazionale, giocoforza ne rimescolano il messaggio. Ovvero: il discorso nazionale fascista ponendosi in contrapposizione a quello liberale potrà anche ancorarsi alle stesse figure profonde, ma ne sarà per forza differente.
Stop. Stiamo commettendo un errore: parliamo di “discorso nazionale liberale” come fosse un unicum. Però l’epoca liberale è attraversata da destra e sinistra storiche, e poi dall’ultimo Giolitti e dal successore Salandra che fanno un po’ corpo a sé. E ciascuno di tale soggetti ha puntato su un cardine diverso per il proprio discorso:
- destra storica; statuale;
- sinistra storica; nazionalista;
- Giolitti & Salandra (almeno dal 1911); nazional-imperialista;
(Queste sono mie definizioni, che magari spiegherò meglio poi)
Comunque, in quest’ottica la faccenda sembra configurarsi come un progressivo adattarsi del “discorso liberale” alle circostanze, fino a prefigurare molti aspetti di quello fascista. In particolare (e torno allo spunto di Marabou) un adattarsi alle circostanze di politica estera. Ma anche interna: sembra davvero una rincorsa dello stato liberale a garantirsi la possibilità di controllare una politica che va massificandosi, alzando sempre più il “livello di intensità” del discorso. Rincorsa chiaramente fallita nel primo dopoguerra, e sulla quale si innesta e subentra il fascismo, il cui discorso per molti aspetti non è dissimile dall’ultimo liberale. Insomma, e su questo Banti ha ragione e riecheggia un po’ GdL, si tratta di discorsi essenzialmente politici e non statual-nazionali in senso “puro”.
Forse i “gap simbolici” che stiamo cercando sono da individuare mixando le nostre fonti e i nostri spunti. In particolare:
- identità/alterità (politica estera);
- gap “genetici” (come quelli evidenziati da GdL);
- ruolo della Chiesa, in funzione di alternativa o di catalizzatore (GdL e Banti);
- prevalenza del politico (GdL).
Gian Enrico Rusconi, “Cavour e Bismarck; due leader tra liberalismo e cesarismo”, Il Mulino, Bologna 2011. Ho deciso di appoggiarmi anche a questo testo per vedere se una comparazione tra l’unità italiana e quella tedesca ci possa dare qualche elemento in piu’.
Decido di modificare il titolo provvisorio da “Gap simbolico, un problema italiano” a “Nazione, Stato, Politica”. Mi aiuta a focalizzare meglio i tre poli principali attorno ai quali si muove la riflessione.
Dopodiché lo modifico ulteriormente in “L’Italia e gli italiani: un problema di legittimazione”.
Scaletta:
- Intro
- Antifascismo e gap simbolico
- “Gap genetici”
- L’imposizione della modernità (nascita dello Stato)
- Realpolitik (prevalenza del politico, politica estera)
- Il peso (élite e popolo)
- Controstati (la Chiesa; la questione 43-45)
Consiglio: “Il noi diviso: ethos e idee dell’Italia repubblicana” di Remo Bodei, che è un gran figo. So che non inizia “dalle radici”, ma in fondo la ricerca delle origini è un concetto superato, però analizza proprio l’ethos degli italiani nella sua spaccatura rispetto ad un’identità unica. |
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In ogni caso, l’esempio di De Bernardi ce lo vedo bene come modo per capire come si “muove” una nazione identitaria. Da tenere bene in mente è che un De Gaulle non è una salvezza(so che tu non volevi intendere questo), infatti i francesi avevano il problema del degaullismo (e ce l’hanno tutt’ora, come spettro incombente, ugualmente al bonapartismo). |
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Il gap simbolico di cui parli si potrebbe collegare a un’incapacità italiana di definirsi in relazione ad una’alterità ben definita. Ovvero la creazione della propria identità passa attravero la definizione dell’alterità, ma se questa alterità vacilla e i suoi confini sfumano e si spostano continuamente l’identità ne risente. 1882 Triplice Alleanza L’alterità, ‘il nemico’, si sposta continuamente e così anche l’dentità non riesce a stabilizzarsi. La politica estera italiana ha senza dubbio segnato profondamente quella che è stata la costruzione simbolica dell’italianità. Se il mio codice simbolico di autoidentificazione s’impone con Vichy = L’Altro (e infatti non col nome ufficiale État français ma con l’espressione Régime de Vichy) allora la Francia è Libre ma se Salò rimane Repubblica Sociale Italiana-Noi o comunque Parte di Noi cosiccome la Resistenza rimane Resistenza-Noi o Parte di Noi, allora si ha un conflitto simbolico interno nel quale giocano due identità-alterità. E che si può allargare e riscontrare bene nelle dinamiche italiane 43-48: Partigiani-Repubblichini Lo Stato francese è riuscito a ridurre la complessità e conquistare l’immaginario simbolico della Francia-Patria-Unita e lo Stato francese di Vichy è scomparso dalla Storia. La Francia post ‘46 si è definita anche su questa alterità. Lo stato italiano post-46 non è stato capace di imporre una simbologia condivisa abbastanza forte da cancellare la ’patria fascista’ e creare la ‘patria italiana’. Detto questo, la tua domanda è interessante, banalmente posso rispondere che l’entrata prorompente della religione cattolica nella politica e quindi nella gestione delle emozioni collettive ha sicuramente contribuito a fare da collante. Il monopolio simbolico delle emozioni passa il testimone dal Fascismo alla Democrazia Cristiana e in parte al PCI ma l’idea di patria non riesce però ad imporsi davvero, forse perché da una parte (DC) non c’è un passato politico all’interno del Regno d’Italia su cui far leva e dall’altra (PCI) rimane la contrapposizione classe-patria. |
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Grazie per gli interventi, ottimi :-) Sulla DC, e sul ruolo della Chiesa in generale, c’è anche di più: devo andare a recuperare il volume di Pluviano-Guerrini sul regime disciplinare durante la Grande Guerra, perché c’è un capitolo sull’azione dell’episcopato veneto e friulano durante il conflitto e soprattutto tra Caporetto e Vittorio Veneto che apre uno squarcio interessante. Se non ricordo male dimostrava attraverso la corrispondenza dei vescovi il porsi della Chiesa come “patria primaria”, supplente in tutto e per tutto alla “patria secondaria” italiana. Insomma la mia impressione è che più che collante si tratti di un’alternativa al concetto di “patria italiana” slegata dal papato; alternativa tenuta viva dall’unità al fascismo (con un periodo di massima convergenza nel corso di quest’ultimo) e “messa a frutto” dalla DC nel momento di ottenere consenso elettorale.. però magari sto estremizzando. Marabou, mi sai dare qualche dettaglio in più (o una fonte) sulle manifestazioni anti-tedesche a Milano nel ’39? |
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Chabod, L’Italia Contemporanea (1918-1948), Piccola Biblioteca Einaudi, p.98 Ma mi correggo, avevo citato a memoria, non quella di Solomon ma la mia. “Si giunge così al «Patto d’acciaio» (annunciato a Milano il 7 maggio e firmato a Berlino il 22 maggio 1939), di cui sarebbe interessante seguire la storia nei particolari, giacché vi si può ritrovare tutto il carattere della politica di Mussolini e tutta la sua personalità. Basti dire che il ministro degli Esteri ricevette per telefono l’ordine di annunciare il patto quando si trovava ancora a Milano. L’incontro Ciano-Ribbentrop non avrebbe dovuto svolgersi infatti a Milano, bensì in un luogo più appartato, a Como. Ma il 5 maggio Mussolini legge sui giornali francesi che a Milano vi sono state delle dimostrazioni antitedesche. L’uomo ha uno scatto d’ira, e bruscamente decide che l’incontro abbia luogo a Milano. C’è sempre in lui un bisogno di polemica, e i risentimenti, i rancori finiscono con l’influenzare anche i grandi problemi”. |
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Ho piazzato la tesina inviata a De Bernardi in allegato.. francamente ritengo mi sia venuta fuori una roba davvero modesta per non dire di peggio, quindi sto valutando se partecipare al secondo scaglione o lasciare perdere questa e inventarmi qualcos’altro per il terzo. Propendo per la seconda soluzione. |
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